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Fancamente, questo articolo mette in luce ciò che molti pensano ma pochi osano dire: il racconto degli attivisti della Flotilla è pieno di contraddizioni e privo di riscontri oggettivi.
Parlano di abusi, ma tornano in Italia senza un graffio.
Gridano al sequestro, ma non mostrano una sola prova concreta.
E mentre si atteggiano a vittime, ignorano il fatto che hanno deliberatamente provocato una nazione in guerra.
La magistratura dovrebbe archiviare il caso senza esitazioni: non possiamo permettere che l’Italia venga trascinata in una farsa internazionale.
Siamo un Paese serio, non un palcoscenico per attivismi teatrali.
Flotilla: Attivisti italiani accusano Israele,
ma il racconto vacilla.
Mascali (CT), 5 ottobre 2025 —
Sono tornati in Italia i primi attivisti della Global Sumud Flotilla, protagonisti dell’abbordaggio da parte della marina israeliana.
Al loro rientro, hanno denunciato presunti abusi e maltrattamenti subiti durante la detenzione.
Ma a guardare bene, il loro racconto presenta più di una crepa.
Abbordaggio in acque internazionali?
Nessuna prova.
Gli attivisti sostengono di essere stati intercettati in acque internazionali.
Ma questa è solo la loro versione.
Nessuna prova concreta è stata fornita: nessuna registrazione, nessun tracciato GPS indipendente, nessuna verifica da parte di organismi terzi.
In un contesto così delicato, basarsi esclusivamente sulle parole degli interessati è quantomeno discutibile.
Maltrattamenti?
Tornano in Italia senza un graffio.
Le accuse di abusi fisici e psicologici si moltiplicano: “Ci insultavano, ci picchiavano, ci facevano inginocchiare”, raccontano.
Eppure, al loro arrivo a Fiumicino, gli attivisti sono apparsi in buone condizioni, senza segni evidenti di violenza, ben nutriti e in salute.
Nessun referto medico, nessuna documentazione ospedaliera, solo testimonianze verbali.
È lecito chiedersi: se davvero fossero stati trattati come criminali, perché non ci sono tracce tangibili?
Una denuncia che sa di teatro.
La portavoce italiana della Flotilla, Maria Elena Delia, ha annunciato due esposti alla procura di Roma per sequestro di persona.
Ma anche qui, il sospetto è che si tratti più di una mossa mediatica che di un’azione fondata su basi giuridiche solide.
L’abbordaggio, se avvenuto in acque contese o prossime alla zona di sicurezza israeliana, rientrerebbe nelle prerogative di uno Stato in guerra.
E la denuncia, priva di prove concrete, rischia di trasformarsi in una pagliacciata.
Provocatori travestiti da pacifisti?
Il comportamento degli attivisti, che hanno deliberatamente sfidato una nazione in stato di guerra, solleva interrogativi.
Non si sono comportati da mediatori o da operatori umanitari, ma da provocatori consapevoli.
E ora, dopo aver forzato una linea rossa, si lamentano di non essere stati accolti con champagne e caviale.
La realtà è che sono stati trattati come chi viola una zona militare: con fermezza, ma senza brutalità.
Una narrazione costruita?
Infine, il sospetto più grave: che il racconto sia stato costruito a tavolino.
È facile mettersi d’accordo e raccontare una versione utile all’opinione pubblica.
Le frasi sono ripetute, i toni drammatici, le analogie storiche forzate.
Ma dietro le parole, mancano i fatti.
E chi osserva con lucidità non può ignorare che, al di là delle dichiarazioni, gli attivisti sono tornati a casa illesi, ben panciuti e pronti a cavalcare l’onda mediatica.
Conclusione
Ci auguriamo che la magistratura romana valuti con rigore e distacco le dichiarazioni dei presunti attivisti e non si lasci influenzare da narrazioni emotive prive di riscontri oggettivi.
Se davvero non esistono prove concrete — né documenti, né referti, né tracciati la sola via sensata è quella di archiviare il caso per mancanza di elementi.
Non possiamo permetterci di diventare lo zimbello internazionale per inseguire fantasie ideologiche.
Siamo italiani, siamo persone serie.
E la serietà si misura anche nel non dare credito a chi cerca visibilità travestita da vittimismo.
Presidente di Europa Federale
Trej Giuseppe
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